Lettera per Ferzan Ozpetek

Lettera aperta di Carmelo Buono a Ferzan Ozpetek
“Accenno libro manoscritto”

sabato 2 aprile 2016,

Buongiorno Ferzan Ozpetek,
sono sempre Carmelo Buono dall' isola d'Ischia. Essendo lei sensibile ad alcuni problemi etici le invio 10 pagine di quanto ho scritto. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa con immutata stima e simpatia Carmelo Buono.
IL CORAGGIO DI SCEGLIERE di Carmelo Buono

“Ama chi sei e mai nessuno sarà come te”
Dedicato a chi si sente libero e, nonostante la paura, ha il coraggio di scegliere.

1-
Il 28 agosto 1988, fu una giornata veramente afosa, nel pomeriggio il calore era insopportabile. Il negozio era pieno di clienti e la stanchezza incalzava.
Verso le cinque squillò il telefono, era Paulo da Rio de Janeiro, per economizzare sul costo della chiamata, fu molto stringato, ma mi comunicò una notizia che avrebbe segnato tutta la mia esistenza.
Circondato dal frastuono delle apparecchiature elettriche e dal chiacchiericcio delle signore, avevo difficoltà a capire (o forse non volevo). Tagliai corto: “Ti richiamo in serata”.
“Promettimelo è urgente”; risposi con un sì svogliato e continuai il mio lavoro.
Ero inquieto, ma cosa mai avrebbe dovuto dirmi di tanto urgente? Noi ci sentivamo di rado. Quasi mai. Un pensiero che mi tormentò per il resto della giornata.
Capii che doveva essere qualcosa di serio, altrimenti Paulo non avrebbe mai telefonato dall’altro capo del mondo.
Nel tardo pomeriggio chiamai Valerio e gli accennai della telefonata dal Brasile; “verrò da te dopo il lavoro” mi disse; anche lui fu sorpreso, ma intanto avevo stuzzicato la sua curiosità, “di che si tratta?”.
“Ne so quanto ne sai tu. Stasera chiameremo”.
Continuai a lavorare pensando a cosa potesse essere successo. Avvertii un brivido di terrore giù per la schiena. Percepivo che il mondo stava cambiando. Ne fui sgomento, ma cercai di dominare l’emozione.
Uscii per un caffè, mai come quella sera c’era un tramonto meraviglioso che ammirai esterrefatto. I raggi del sole sembravano braccia che si protendevano verso di me, mi sembrava di sfidare il sole, un gioco che facevo sin da bambino. La consideravo un’impresa titanica.
Mi dissi “No! E se fosse?”. Ma allontanai l’idea che mi si era presentata finché non incontrai Valerio.
Era appena tornato dal suo lavoro: “Ti hanno almeno detto cosa vogliono?”.
“No! Ma per saperlo basta chiamare”.
In realtà temevo quella telefonata, almeno quanto la temeva Valerio.
Era irrequieto, girava il salone in lungo e in largo come una belva in gabbia.
Cominciai a ironizzare – cosa che facevo tutte le volte che avvertivo la tempesta in arrivo – “vogliamo prospettarci qualcosa?”.
Bisognava affrontare l’argomento. Valerio era un temporeggiatore e se non avessi spinto, staremmo ancora a discutere sui forse e i probabile, fermi nel mondo del nulla. Capii che non avrebbe alzato la cornetta neanche sotto tortura.
“Vai a fare la doccia mentre io preparo un caffè” gli dissi. Non volle sentire altro.
Guardai il telefono, “adesso tocca a me”.
In realtà era un piano che avevo preordinato e conoscendo le lungaggini dei sacri lavacri sapevo di avere tempo anche per i dettagli.
Nel comporre il numero di telefono avvertivo che il mondo stava girando – ero calmo – pur sapendo quale sarebbe stato il tema che avrei dovuto affrontare.
“Ciao, come stai?”
“Stiamo tutti bene – e venne al sodo – ascolta, Valerio è lì con te?”
“Sì! Sì non ti preoccupare. Dimmi”
“Voi siete sempre interessati a quel progetto del bambino?”
“Certo. Hai novità?”
“Guarda, stamani mi ha chiamato Fernanda, ricordi la nostra amica moglie dell’avvocato Dines?”
“Mi sembra”.
Si era reso conto che avevo qualche difficoltà a ricordare e aggiunse per essere più chiaro, “la figlia di donna Jò. L’hai conosciuta qui da me a cena.”
Ricordai immediatamente, “allora?”
“Questa mattina mi ha telefonato chiedendomi: i tuoi amici italiani sono sempre interessati a prendere un bambino? Io ho preso tempo e ho risposto ”.
Valerio era sempre chiuso in bagno, quasi terrorizzato.
“Paulo – tagliai corto – dimmi come stanno le cose”.
“Sarò breve” rispose. Il breve di Paulo è sempre nell’ordine del carattere brasiliano, quindi, se vuoi venire al sodo devi interrompere e rimettere la discussione sul binario giusto, altrimenti diventa una girandola di parole inutili.
“Donna Jò ha una ragazza che lavora da lei, l’aiuta in casa. E’ incinta e vorrebbe affidare il futuro nascituro a qualcuno. Voi siete interessati?”
“Certo – risposi – ma perché non vuole tenerlo?”
“Perché già ne ha una di due anni. Monica che vive con lei, e donna Jò non è disposta per la seconda”.
“Il padre della bambina è brasiliano?”
“Sì. Un mezzo indio”.
“Sai Paulo, non vorremmo avere dei problemi”.
“Non ti preoccupare. Quando Iracì gli ha comunicato di essere incinta è scomparso”.
“Iracì vuole denaro? Favori? Meglio parlar chiaro”.
“No, no, assolutamente! Poi la situazione è in mano a donna Jò”.
Donna Jò è un tipo di donna molto formale, finto gentile, con un’alta considerazione di sé, caratteristica tipica delle persone poco istruite. Viveva in un quartiere residenziale, ma in un condominio molto modesto; il suo fare ricordava il suo tramontato eccessivo benessere che oggi ostentava senza averne i mezzi. La conobbi una sera da Paulo. Capii che era molto pettegola e, volutamente, esternai il desiderio di Valerio. Chi più di lei avrebbe saputo cosa fare?
Quando il caso le scoppiò in casa, ricordò la nostra conversazione e contattò Paulo.
Capii subito come stavano le cose.
Valerio, sempre chiuso in bagno con le sue abluzioni, tardava a uscire, così presi una decisione unilaterale e la comunicai.
“Ascolta. Mettetela sull’aereo e mandatela in Italia, così partorirà in Italia da padre italiano, senza alcun problema”.
“Non può volare. Partorirà tra una settimana”.
Le donne hanno nove mesi per prepararsi all’evento, a noi davano 9 giorni.
Con la freddezza di cui sono capace nei momenti tragici, dissi, “Bene. Falla partorire, poi Valerio verrà a Rio, la registrerà come figlia sua e torneranno in tre in Italia. Dopo una settimana Iracì tornerà da sola a Rio”.
“Hai ragione. Facciamo così. Dò la vostra piena disponibilità? Non ci ripenserete? Spero”.
“Ma scherzi? Comunque ti richiamo domani e per qualsiasi cosa noi siamo qui. Ciao, a domani”.
Non ebbi neppure il tempo di pensare a ciò che avevo deciso.
Finalmente Valerio uscì dai fumi del bagno. Mi guardò e disse: “Vogliamo chiamare?”.
“Già fatto!”
“Come già fatto?”
“Valerio, da sempre i tuoi tempi non sono i miei e se avessi aspettato te saremmo arrivati alle calende greche”.
“Esagerato … Allora cosa voleva Paulo?”
Io non sapevo come intavolare l’argomento e, istintivamente, andai sull’ironico: “Beh! Non so se sono buone notizie – mi guardò con aria interrogativa – Mettiamola così: Complimenti, stai per diventare padre”.
“Io padre? Di chi?”
“Ah! Questo non si sa perché non è ancora nato”.
“Perché non cerchi, una tantum – gli piaceva fare il latinista – di essere serio e la smetti di giocherellare con le parole? Per favore chiarezza”.
“Termine che di rado alberga in te”, risposi, Ma aveva ragione.

2-
Erano passati tre anni ormai da quando gli era venuta la smania di diventare padre. Le avevamo provate tutte. Invano.
Penso che mai avesse rinunciato all’idea dal giorno che, seduti come opulenti turisti ai tavoli di un bar sull’Avenida Atlantica di Copacabana, sorseggiando una birra, fummo circondati da una pletora di bambini ambosessi (i “muschitos”). Il maggiore forse aveva sei anni, il minore poteva averne due, portato in spalla da uno più grande. Fu una scena apocalittica: mi chiesi (da non credente) se dio esiste come può permettere tanto scempio.
I camerieri, solerti, li allontanavano. Io ero sull’orlo di una crisi di nervi. Non sapendo cosa fare, me la presi con Valerio che, intanto, si lamentava per il caldo, per il servizio e altre cazzate, incurante di quello che ci accadeva intorno.

Eravamo diversi. Io iperattivo: correvo, mi preparavo per la maratona di New York, giocavo a tennis, studiavo piano perché avevo bisogno di sentirmi impegnato. Lui pigro, eternamente stanco, dinoccolato, sembrava un micione sdraiato sul divano anche quando andava di fretta.
Gli dicevo: “Sei arrivato a 35 anni e pensi che il tuo bilancio sia positivo?”.
Lui mi rispondeva: “Caro, mai fare bilanci, non quadrano mai”.
E io, ancora: “Sei un ragazzo intelligente, sensibile, pieno di soldi che potresti condividere con qualcun altro. Perché non prendi uno di questi bambini e dai un senso al tuo squallido quotidiano? Non permettere al mondo di non accorgersi che ci sta passando sopra. Concediti un sogno. Non ostentare un’aridità di cui non sei capace”.
Sapevo cosa stava pensando: “Potresti farlo anche tu”, invece tacque.
L’immagine di quei bambini era insopportabile.
Tutti bellissimi, sporchi, grandi occhi, indios; ma stranamente ebbi l’impressione che stessero recitando una parte preordinata. Di certo qualcuno li istruiva nell’arte della questua e devo dire che erano bravi a commuovere il prossimo.
In genere gli indigeni li ignoravano, quindi il loro approccio era sempre indirizzato agli stranieri che loro chiamavano “yankee”. Avevamo avuto anche altre esperienze di viaggi e la cosa che mi colpiva di più in ogni paese era sempre l’infanzia sofferente.

Avevamo girato quasi tutta l’Europa: Germania, Francia, Olanda, Inghilterra, Portogallo. Amavamo viaggiare, vedere, sapere, conoscere. Eravamo giovani con una certa disponibilità economica. Ma il vantaggio principale che avevamo stava nella conoscenza delle lingue: Valerio parlava inglese e tedesco, ma era carente nel francese. Io parlavo il tedesco e il francese, ma ero carente con l’inglese. Imparai poi anche il portoghese che mi affascinava per le atmosfere musicali che riusciva ad evocare.
Nonostante le affinità culturali e l’intesa che ci legava, i nostri viaggi avevano finalità diverse. Valerio consultava la Guida Gay, io l’atlante geografico.
L’approccio con il cosiddetto Terzo Mondo fu per me traumatico. Era come tornare alla mia infanzia, povera e piena di sogni. Mi rivedevo in ogni bambino.
Lavorando con un pubblico prevalentemente tedesco, Valerio ne aveva assorbito usi e costumi; preciso, organizzato. Quando si decideva un viaggio, dal principio alla fine, era tutto stabilito nei minimi particolari, anche i dettagli.
Io lasciavo queste cose a lui, mi annoiavano terribilmente.
Dopo aver girato l’Europa, decidemmo di andare in Tunisia. Eravamo a Monaco e un’agenzia tedesca offriva a un prezzo modico una settimana a Sousse (Tunisia), ci guardammo e all’unisono pensammo: “perché no?”
Partimmo da Monaco per farci ritorno dopo una settimana: interessante.
L’approccio con il sud del mondo non fu male: albergo a 5 stelle enorme, fronte mare, piscine, spiaggia privata, ecc. Andammo anche a fare delle escursioni ad Hammamet, Sidi Bussaid e a Matanata passando per Fax e l’oasi di Gabee.
Nella hall dell’hotel c’erano dei corner con dei tavoli e una targhetta che indicava il nome di un’agenzia a cui si rivolgevano clienti di vari paesi; c’erano Svedesi, Danesi, Inglesi, Italiani.
Al bar capitava sempre di incontrare un operatore turistico pronto a “consigliarti”.
Un ragazzino adolescente, che vendeva fiori, lasciava un mazzolino di jasmine sul banchetto dedicato agli svedesi; chiesi a Laila, una guida, il perché di quel comportamento e lei mi disse: “Vedi, qui in Tunisia hanno tanti figli e alcuni tunisini hanno anche più mogli da mantenere, così quasi tutti i bambini si inventano un lavoro dopo la scuola (per chi di loro la frequenta, cosa rara). Molti genitori (per fortuna non tutti), affinché il ragazzino possa vendere di più, gli spezzano una gamba con un bastone. Da zoppo impietosisce il turista che compra più per compassione che per convinzione”.
“Moamed, il ragazzo che avete notato, era zoppo”.
Secondo me la storia era chiaramente inventata. Si trattava di un bel ragazzo, pelle ambrata, molto educato, con degli occhi tristi e privi di sogni.
Comunque Laila proseguì: “Tra i nostri clienti capitò un medico svedese, un professore, un ortopedico. Gli chiedemmo se poteva dare uno sguardo alla gamba di Moamed. Fu un’impresa titanica. Moamed non voleva. Era terrorizzato. Ci vollero giorni per convincerlo. Alla fine ci riuscimmo.
Il medico guardò la gamba e si accorse che il danno era stato procurato, ma disse anche che con un intervento chirurgico la gamba poteva ritornare sana. Eravamo tristi nel sentirci inermi.
Decidemmo, d’accordo con il medico, che noi dell’agenzia avremmo pagato il viaggio per Stoccolma, mentre il professore lo avrebbe operato e ospitato in clinica. Senza pagare un soldo.
Il vero problema era convincere il padre del ragazzo che, fin dal primo contatto, non voleva saperne perché avrebbe perso una facile fonte di guadagno. Pensammo di dargli una somma pari al mancato guadagno per l’intera degenza.
Accettò con molti dubbi; gli arabi sono molto diffidenti. Moamed fu imbarcato per Stoccolma, il medico lo operò e tornò in Tunisia solo dopo la terapia di recupero.
Camminava dritto come un fuso. Da quel giorno, ogni giorno, lui porta un mazzolino di jasmine sul banco svedese indipendentemente da chi fosse l’operatore turistico di turno”.
Valerio non disse una parola, conservando il suo fare molto british continuava a sorseggiare il suo Martini. Continuavo a guardarlo, volevo scrutare le sue emozioni, ma dovetti arrendermi davanti alla sua corazza emotiva.
Tornammo in camera per la doccia e prepararci per la cena. Entrai in bagno con l’intenzione di scrollarmi di dosso le nefandezze del mondo. Quando uscii dal bagno, tanto per cambiare, Valerio era sdraiato sul letto a sfogliare distrattamente la Guida Gay. Gli chiesi: “Vale, ma ti rendi conto di che razza di storia abbiamo sentito?”
“Sì” rispose, ed io “tutto qua? Non trovi che ci sia qualcosa che, quanto meno, ci dovrebbe indignare?”
“No, io la trovo singolare, ma vista la realtà in cui vivono non mi sgomenta”.
La risposta mi sembrava incredibile, “Possibile che pensi questo?”. Poi incazzato gridai “Ma non ti vergogni?”. Una frase forse inappropriata al contesto, ma era la prima che mi era uscita dalla bocca.
Con calma rispose “Non puoi farti carico di tutti i mali del mondo come se fossi Cristo; come ben sai lo crocifissero. Non sentirti dio e non peccare di vanità. Pensi di essere il solo depositario della capacità di distinguere il bene dal male? Vuoi sapere qual è la differenza tra noi due? Io ne prendo atto e so di non poter cambiare questa realtà. Tu invece, ti indigni perché pensi di avere i mezzi per poterlo fare. O perché sai di non averli. – continuò – Caro devi prendere atto una volta per tutte che tutti sbagliamo, anche dio. Il creato è stato meraviglioso fin quando non ha pensato di distruggerlo creando l’uomo a sua immagine e somiglianza. Bah! Così dice il Libro dei Libri . E’ rischioso darsi degli standard morali troppo alti”.
Mi irritava quella sua falsa pacatezza con cui si esprimeva. In realtà si vedeva che questo episodio non lo lasciava indifferente, ero io che anticipavo i tempi, lui doveva ancora prenderne coscienza, come poi farà.




Autore: Carmelo Buono

Lettera per Ferzan Ozpetek. Lettera 18.

Nessun commento su questa lettera a Ferzan Ozpetek


HTML autorizzato: <b> <i> <a> :-) ;-) :-( :-| :-o :-S 8-) :-x :-/ :-p XD :D



Celebrità > F > Ferzan Ozpetek > Lettera 18 > scrivere