Lettera per Paola Cortellesi

Lettera aperta di Erika Magistro a Paola Cortellesi
“Diario di un precario”

venerdì 13 settembre 2019,

Buongiorno Paola Cortellesi,

Ventotto anni e ancora senza un lavoro. Abitavo in Sicilia da sempre. Non volevo abbandonarla la mia terra. La condannavo e l’amavo. Profondamente, come si ama la vita dal grembo materno e inspiegabilmente, come si amano i propri genitori. Da bambina non pensavo che da grande avrei espugnato il mondo né immaginavo che il mondo si sarebbe impadronito dei miei sogni annichilendoli. I miei occhi grandi mi facevano vagabondare. Adesso, invece, le paure mi inseguivano nei vicoli stretti della claustrofobica città di provincia dove le ombre deformi dei passanti minacciavano il mio incedere sotto una pioggia persistente come i miei dubbi. La luna sotto i piedi. Tremolante dentro una pozzanghera. Bianca come il marmo e imperfetta come la sua natura. Solitaria, tra una fila di stelle anonime, contavo i fallimenti disegnando tra le pozzanghere il profilo di chi mi sarebbe piaciuto diventare, ipotizzando un capovolgimento dell’assetto degli eventi. Esaminavo la realtà. La giudicavo e la condannavo. Non perché diversa da come la immaginavo ma perché mi impediva di farne parte come avrei voluto. Ecco a cosa pensavo durante il tragitto che mi separava dall’oblio camuffato col nome “lavoro” o durante la pausa quando, sperando di trovare ristoro in un caffè, disegnavo sul marmo i luoghi nei quali mi sarebbe piaciuto fuggire. Lontano da quel pertugio della città. Lontano da quel “pronto”. C’era il pronto della signora infastidita da una monotonia interrotta, quello del settant’enne pronto ad inveire e quello complice della dipendente soggiogata dal titolare. Ad ogni pronto corrispondeva un tono di voce, ad ogni tono di voce uno stato d’animo emblema di un mondo che in quelle poche ore mi preoccupavo di ricostruire. Ogni settimana uno script diverso da memorizzare. Certi giorni sentivo di essere abile nell’ opera di persuasione popolare, altri avevo come l’impressione di centellinare i secondi senza vederli passare: prigioniera di una condizione ineluttabile, spettatrice impotente dell’aborto spontaneo del mio futuro. Se volete "garantire" un futuro ai vostri figli, dal compimento del decimo anno di età, spingeteli ad inviare il CV a chicchessia: l'esperienza è importante. Dite loro la verità: che il luogo natio non sarà in grado di appagarli, poi spingeteli a delle partenze senza ritorno. Dite loro che la cultura fa crescere ma non produce denaro, che il denaro ha atterrato il sogno. Dite loro la verità, senza se e senza ma: che quel mare, lo stesso che ogni giorno scorgeranno al di là della ferraglia, è stato generato per agganciare e non per scacciare- pensai. Raccolsi la sigaretta abbandonata nella borsa, l’accesi e mi lasciai ferire dal vento poi mi venne alla mente quella volta in metropolitana quando, scivolando nelle conversazioni altrui, sentii dire che esistono tre modi per essere immortali: piantare un albero, scrivere un libro e mettere al mondo un bambino. Pensai che un albero non lo avevo piantato, che un libro non lo avevo scritto, che un figlio non lo avevo ancora avuto. Spensi la cicca sull’asfalto bagnato e mi lasciai condurre dalla brezza autunnale, in mezzo ai rami dell’albero che avrei voluto piantare, tra le pagine del libro che avrei voluto scrivere, verso gli occhi del figlio che avrei voluto veder nascere. Non è tempo per sognare - mi rimproverò la coscienza costringendomi a rimettermi al passo. Le mani in tasca e lo sguardo altrove. La luna negli occhi e la paura col suo ticchettio nel polso. Raccolsi la vergogna per strada, tra l’immondizia e i cani randagi di una città assopita. Avevo sostenuto l’ennesimo colloquio. L’ennesimo rifiuto mascherato da rinvio. Piansi per tutto il tragitto di ritorno verso casa fingendo di avere il singhiozzo. Sussultavo ad ogni incrocio annegando il respiro dentro un maglione infeltrito, ripensando alle domande alle quali non avevo saputo rispondere. Il sole usciva a malapena da dietro le nuvole come uno sguardo abbassato dalla timidezza mentre un ragazzo, accoccolato sul marciapiede umido, usignolava accompagnandosi con la chitarra Gli misi un euro dentro il bicchiere dentellato. Un euro per farlo cantare, un euro per farlo tacere.

Con stima,
Erika.

Autore: Erika Magistro

Lettera per Paola Cortellesi. Lettera 34.

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