Lettera per Pupi Avati

Lettera aperta di Paola Salvestroni a Pupi Avati
“Giro girotondo”

martedì 6 agosto 2013,

Buongiorno Pupi Avati,

nell'epilogo del suo candidissimo libro, lei evoca quello che considera il suo archetipo: una foto che la ritrae quattordicenne, con l'aria un po' furbetta, ma al contempo scontenta e malinconica, che si è guardato bene e con grande saggezza dal pubblicare (scrivere un'autobiografia non deve assolutamente comportare la rinuncia all'estrema riservatezza riguardo le poche cose per noi davvero importanti e che per questo hanno pieno diritto a non essere mostrate sulla pubblica piazza) .Ho sempre pensato che è proprio a partire dagli archetipi, che definiamo per lo più quando siamo bambini, che ciascuno di noi declina poi la sua esistenza, si forma una visione del mondo, adotta una morale. "Io sono definitivamente quel ragazzetto della fotografia per il quale la parte più interessante della vita è lì per arrivare", lei scrive, sottintendendo che il tempo è solo una convenzione e che possiamo (basta volerlo!) superare, almeno mentalmente, i limiti del divenire inevitabile di tutte le cose. Le ultime parole del suo libro mostrano come in realtà il libro non finisca: come tutti i libri veri, "La grande invenzione" si presenta aperto, infinito, al lettore che di fatto scopre di avere di fronte non soltanto e non semplicemente un'autobiografia, ma una fantastica occasione di scrivere a sua volta, leggendo, un altro libro, immaginando luoghi, volti, situazioni. Sono soprattutto le parti in corsivo a favorire questo prodigio della creatività, le parti in cui racconta dei suoi incontri, in quel tempo sospeso tra il sonno e la veglia, con amici scomparsi e dell'aldilà; oppure in cui narra ricordi più intimi ai quali ha riservato uno spazio più discreto. Parlare con i morti è un modo per liberarsi dagli automatismi del tempo, della quotidianità, per superare la nostra condizione di confinati in una dimensione spaziale e temporale: Elemire Zolla faceva questa considerazione a proposito di Pinocchio, grande frequentatore, in sogno, della fata, che è una morta ed è figura polimorfa, variabilissima. Pinocchio, questo raccontino all'apparenza semplice semplice, contiene di fatto i grandi archetipi: parla della vita, della morte, del destino, del bene, del male; parla della natura, dell'umano e del divino, di questo e di quell'altro mondo. E di tutte queste cose mi sembra parlino i suoi film, nei quali i grandi archetipi possono risultare nascosti, come nel capolavoro di Collodi, sotto le vesti di un contadino, di un monaco o di un viandante; o sussurrati, appena accennati, da un ragazzetto di campagna o da un'anziana zia, mentre racconta storie terribili ai bambini in un buio di tanto tempo fa. Rifuggendo qualunque intellettualismo, lei riesce a raccontare il mistero, archetipo degli archetipi e trovo che sia questo a rendere grande il suo cinema. E' stando dentro l'impossibile contenimento dei grandi archetipi che diventa possibile scrivere un film "Subito prima che Francesca rida" (poco importa se non è stato realizzato) o andare a riprendere dopo trent' anni il cane della nostra adolescenza. Tornando a Pinocchio, anche solo sulla base di quanto dice riguardo la tentazione bruciante di fuggire di fronte alle responsabilità della vita, credo sia lecito pensare che lei sia alquanto pinocchiesco. Noi spettatori ammirati possiamo soltanto augurarci che, come Pinocchio, anche lei, da tempo cresciuto, non si disfi mai del suo burattino monello e testa dura, il quale, inerme ma vigile, dalla sua sedia potrà guardarla in eterno.
Con stima profonda,
Paola Salvestroni


P.S.Grazie ancora per avermi fatto assaggiare il suo gelato alla liquirizia: la porzione era davvero minima e i cucchiaini davvero "massimi"!

Autore: Paola Salvestroni

Lettera per Pupi Avati. Lettera 2.

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