Lettera per Pupi Avati

Lettera aperta di Giovanni Angiolo RUBINO a Pupi Avati
“Ti ho rubato Laura(Marta)”

lunedì 1 giugno 2020,

Buongiorno Pupi Avati,
ti sei occupato di Laura seguendo una storia che con la mia non ha a ache fare.Questa SINOSSi di romanzo "lauresco" che ti mando è pura curiosità.Pur volendo utilizzare questo mio racconto per un film,non potresti.Hai già una campionatura disponibile
Cordialmente
Giovangiolo37@####.com
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SULLE TRACCE DI L A U R A
(On Laura tracks)
di Giovanni Angiolo R U B I N O via Vaccaro 248 POTENZA
email giovangiolo@####.com
NOTA - IL MANOSCRITTO è stato depositato presso la Sez.OLAF della SIAE

Questo romanzo lo avevo contrassegnato col titolo “Ritratto di Laura”,ma pensando che c’è già “Ritratto di Signora” di Henry James,non me la sono sentita di uscire sfigurato dal confronto.Anche se i temi e la stessa scrittura siano completamente diversi.Nelle “Nozze di Laura” del regista Pupi Avati,ben pennellato sul colore e sulla dolcezza del nero Karimu,Marta Lagatti che fa Laura potrebbe fare il paio con la mia ch’è fiorentina e che si porta cuciti i difetti e le virtù delle donne toscane

I Capitolo

Fu guardando più che osservando il “Ritratto di Laura” di Agnolo Tori detto Bronzino agli Uffizi di Firenze che stabilii come doveva essere la mia compagna futura.In un sol colpo,cancellai dalla mia mente la pomiciatissima Giulia Serena Bruni che di mio stava per avere un figlio e aveva rimediato con l’aborto,la paffuta e pupazzata Maria Luisa che s’era a lungo lasciata intrigare dal mio modo “inconsueto” di fare l’amore(praticamente,attraverso il foro o gattaiola del suo magazzino dove si recava per il fresco),la paventata moglie di Umberto Acciarini mio vecchio compagno delle elementari che o le davi tutto o ti scippava a morsi,infine la buon’anima di Arlina Fedora Scimèca che tanto sentiva l’importanza del suo secondo nome e voleva essere chiamata semplicemente Fed.Prima di tutto,converrà precisare che ci facesse a Firenze un tipo come il sottoscritto che fin lì non era stato un giramondo.E curiosità delle curiosità come fosse finito agli Uffizi un Bertoldo della mia specie che nulla sapeva di gallerie e meno ancora di arte pittorica e scultorea.A vent’anni mi morivo di fame.Tutte le donne nominate se non stavano con me stavano con altri.Io avevo una buona capacità domatoriale.Nel senso che sapevo come portarmele a letto e come meglio caricarle perchè ero dotato.Anche cinque o forse dieci centimetri in più rispetto alla media che,oltre alla pura semplice curiosità,faceva la differenza con gli altri uomini.Poichè tutto questo non bastava e non basta a mantenere famiglia e lo sfizio a lungo si estingue come una suonata,mi mollavano.Intanto,era voce.Una mi licenziava con una piccola mazzetta perchè me ne stessi zitto costumato,altre venivano a raccogliere l’acqua della “novella piova”.Femminette.Che avevano a che fare con i panni da lavare da stirare con le galline con il barile con la minestra e la cianfotta.Un giorno mi misi in treno con meno di cento in tasca e andiamo a Firenze.Dove avevo sentito che c’era da scalpellinare e da impastare per le costruzioni.Le uniche cose che avevo imparato e che,con alterna fortuna,rimediavo.Un giorno a te uno a me molti con le mani sulla pancia a guardare le nuvole semmai si decidesse a piovere.Nelle immediate adiacenze degli Uffizi c’ero stato carrellato da un tizio che s’era preso quello che mi restava delle cento lire per i suoi incomodi e mi aveva fatto cenno di bussare a una specie di pagliara boschiva che si trovava in mezzo a tante case perbene.Dov’è oggi l’osteria del Porcellino a Val di Lamona 7,ferveva una certa costruzione che non aveva niente di storico e trascendentale.Case popolari e della piccola borghesia che sicuramente saranno state buttate a terra e rifatte con migliori credenziali.Trovare lavoro in quel manicomio, non mi fu difficile.Portai avanti le qualità di scalpellino perchè c’era fervore e fermento alla Mensola dove, per ogni basola,davano cinquanta e cento.Se ne faceva più d’una durante l’arco della giornata perchè il materiale era poroso.Quasi come alla cave tufacee pugliesi.O come a quelle fintomarmoree di Trani.Per dormire trovai un nido di stecchi nei pressi del Rubaconte.Avevano da poco smesso le alzavole e le faraone e m’incappucciai io sperando che l’Arno non mi venisse a trovare durante le piene favolose.Ch’erano più un ricordo che una realtà.Per mangiare,mi procurai un fornellaccio a butano e due sartascene nelle quali o schiacciavo uova e sbadigli o verduracce toste rifiutate al mercato di via Por Santa Maria che ha poi ceduto al Porcellino.Cambiai genere di vita da così a così.E mi caricai di un sacco di responsabilità sotto le quali paventavo di dover seppellire.A cominciare da quel dovermela vedere totalmente da solo mentre prima ero abituato a demandare anche per andare al bagno.Il lavoro era sodo e continuato.Non mi alleggerivo che a sera quando cadevano le prime ombre.Dire che frequentassi Firenze con tutte le bellezze che la città offriva è molto azzardato.In pratica,raccoglievo racimoli sì e no di tutto il movimento che si svolgeva a via Tornabuoni e a quella dei Calzaioli.Se non fossi stato preso(sempre come scalpellino) a dare una mano al (ri)costruendo Scalone del Buontalenti,non avrei conosciuto neppure gli Uffizi e non mi sarei neanche fissato con la nasofilata di Laura che se ne stava a una parete del Corridoio Vasariano.Aspettava fidanzati?La prima volta che vidi il capolavoro del Bronzino o di quell’Agnolo Tori che aveva qualcosa di orecchiato con gente del mio paese,fu una giornataccia di luglio.Firenze era sgombra perchè la gente si rinfrescava al Lungarno degli Acciaroli.Noi lavoratori del braccio dovevamo adempiere a lavori delicati in un periodo di sfollo di visitatori.Che avrebbero ripreso la loro frequenza assidua (per non dire pedissequa) già ai primi di settembre.Laura mi costò una quindicina di basole.Furono veramente poche per l’amore che per lei mi nacque e che mi avrebbe accompagnato per l’intero arco dell’esistenza.Faccio risalire al primo incontro la freccia feritrice.La quale puntualmente si ripresentò velenosa per tutte le donne che ebbi o che desiderai(senza avere)e che furono un piccolo fiume durante la mia esistenza.Travagliatissima.Senza di esse,è solo questo periodo di mesta vecchiaia che mi costringe a vivere di ricordi e del miele passito che mi è scorso.Come quello del vasetto.Notai subito il naso fino di Laura,poi il taglio degli occhi,la fronte spaziosa,gli orecchi minimi non più grandi e svasate di due sventole di prete la cui morte è il ragù di gallo ruspante.Pensai, come non avrei dovuto, che o mi si presentava l’occasione di una così ben fatta( uguale alla posa pittorica) o me ne avrei costruita una con l’ascia.Poichè quando nasce un sentimento è inutile scacciarlo perchè tanto si ripresenta,finii per passare notti in bianco.L’acqua del fiume che avevo sotto non faceva che assecondare col suo murmure la mia parca tempesta.Parca nei primi tempi.Qualche notte mi alzavo e spiavo dal mio piano rialzato nello specchio.Non fluttuavano in superficie solo le stelle del firmamento della canzone “Firenze dorme”,ma c’era anche il simulacro di Laura che o sorrideva o mi ammiccava come se avessi dovuto seguirla nell’acqua.La curiosità d’incontrare segni della donna dipinta nella monotona sequenza dei giorni, prese piede.Quando vedevo una fiorentina con fazzoletto egizo(era un periodo che questo gadget o si usava o si usava temporaneamente per proteggersi dal sole estivo),la spiavo da sotto in su.Filtrando come potevo attraverso la maschera che precludeva la visione tutt’intera.Correvo al naso.Cercavo ovviamente quello leggermente in su di Laura,ma trovavo peperoncini dritti e perfino qualche pomodoro vesuviano principe di tutti i pachini della terra.Questa curiosità denotava un mio senso di sazietà perchè lavoravo e guadagnavo,in parte lo persi quando cominciai a ballare con l’alternanza come un racimolo.Due giorni lavoravo e altri due me ne stavo a spasso.L’economia non ne risentiva.O non ne risentiva in maniera pesante perchè ero solo e mi accontentavo di poco per vivere.Mi sfiziavo con la pasta.Ne cuocevo anche mezzo chilo perchè era sufficiente a soddisfarmi per l’arco delle ventiquattr’ore.Stando su una superficie mossa e vedendo,specialmente di notte con la luna,molti pesci azzuffarsi andando in controtendenza,approfittavo per migliorare il mio menù.Ero in un posto dove nessuno avrebbe potuto dirmi niente(ci tenevo ad evitare i rilievi della gente).Avevo costruito un focolare all’aperto e usavo gli spiedi per girare la preda.C’erano nell’Arno bei pescioni che sfuggivano ai pescatori conclamati.Essi erano furbi come i cefali del Basento.Saltavano le reti come acrobati circensi.Però finivano nelle mie tenaglie.Che avevano una loro tecnica per imprigionare e per non mollare con eviscerazione seduta stante.C’erano al Rubaconte altri sfasciati che mi facevano concorrenza.Perfino qualche donna.O per crollo verticistico nella povertà più nera o perchè aveva cominciato scherzando e s’era adeguata.I miei occhi correvano dovunque c’era movimento.Quando vidi una “madonna” che incappucciata com’era sembrava la feccia del Lungarno ma che aveva il “nasino”,le detti subito addosso.Fare amicizia con una lungarnese era molto difficile perchè era gente a se stante,che si accontentava di quello che le offriva il quotidiano.Io passavo come uno stereotipo dell’immigrato transeunte( a nessuno precisavo che venivo dal Sud perchè potevo incontrare qualche riserva) e dovetti battere in ritirata.Non solo il modello sporco feticistico di Laura non voleva darsi,ma mi fece minacciare dai suoi latinos ch’erano un gruppo etnico in forte crescita che veniva(grande fandonia) dalla zona delle conclamate “cascine”.Marta era toscana come io ero e son rimasto lombardo.Seppi ch’era addirittura foggiana e che veniva testualmente da Troia.Un paese dove i giovanni rubino come il sottoscritto erano in svendita.Lei aveva saputo dei miei dati anagrafici(fesso fesso m’ero presentato con le credenziali giuste)e si era trincerata.Non voleva mettersi con uno della sua comunità.Non si mise per un lungo periodo durante il quale le presi tutti i negativi,meglio mi accorsi ch’era ben fatta,che non “lo” dava con facilità o “lo” dava a sfizio,che non mangiava nè abbondante nè tutti i giorni,che il mio nido era una reggia rispetto al suo sfasciume fatto di cartoni.Apparentemente,fingeva di non seguire i miei armeggiamenti fino a quando non si ebbe il ribaltamento.Non ero più io a pedinarla,ma era lei a incrociarmi per sentieri trasversali.Che, stando dove stavamo,non è che ce ne fossero molti.Mentre quei pochi corti accidentati budelloidi per un verso o per un altro portavano tutti al Ponte delle Grazie.Dal quale ero quasi costretto a passare tutte le mattine quando mi recavo a lavoro e tutte le sere,già ombrate,quando ritornavo. Esattamente all’apice peduncolare del Rubaconte avevo la mia dimora.Alla quale venivano a beccuzzare i pesci perchè la mia soglia era sempre piena di avanzi.Era un mio bisogno e il bisogno era diventato vizio quello di cacciare la sventola e durante le uscite che ai rientri.Il getto era calibratissimo e sversava in acqua come una piccola cascata.Ero talmente sicuro della solitudine che non ponevo alcuna attenzione a guardarmi intorno.Invece,non sarebbe stato iniquo gettare uno sguardo furtivo.Se lo avessi fatto,mi sarei accorto che il modellino di Laura si trovava seminascosto nelle adiacenze e che probabilmente mi stava prendendo le misure.Che non potevano non impressionarla e non crearle a cuor leggero,semmai fosse cominciato a nascere qualche modesto cedimento,strane paure per i danni che le sarebbero potuti derivare.Una sera ella venne a bussarmi perchè aveva rotto le ambage.Io stavo al pesce come a Giffoni stanno al cinema per ragazzi.La vidi e feci un sobbalzo di gioia perchè mi era sembrato che dal famoso corridoio vasariano degli Uffizi “lei” si fosse mossa.Avrei voluto invitarla a sedersi ma non avevo il duplicato di quello che mi stava sotto il culo.Lei mi prevenne e mise la sua rotonda piattaforma sull’angolino del letto.In un eccesso,arrivai a pensare che se le fosse uscita una fetecchia,avrei meglio potuto dormire a quel profumo.Fui un porco anche col pensiero.Per il fatto stesso ch’era Laura o il simulacro o la sua finzione scenica,essa non poteva lordare l’aria.Me la poteva solo profumare,come tra me dissi.La prima cosa che mi espose fu ch’era stanca del nostro gioco a rimpiattino e che si poteva arrivare finalmente a una tregua.Lei non aveva niente ma non chiedeva niente e aveva solo bisogno d’un pò di compagnia.Stando su un fiume da sfrattati,la cosa peggiore che balzava era il senso di solitudine.Ebbi quasi voglia di abbracciarla e di dirle che cosa ella rappresentasse in quel momento per la mia esistenza.Ma subito se ne venne con le preclusioni sconfortanti.Disse che non intendeva farsi sfondare.Aveva purtroppo spiato e aveva potuto constatare quanto fosse lungo e grosso (e sì che sarebbe stato corrivo di guai) il mio exalibur.Io volevo coprire.Dirle che le apparenze ingannano e che i sessi sono quasi tutti uguali.Ma lei fu tosta e mi propose che o mi facevo mangiare una decina di centimetri dai pesci (che hanno il morso dolce come i topi) o che non se ne faceva niente.Sembra un’iperbole per barzellettieri,ma i patti erano patti e dovetti promettere.Del resto,trattandosi del miracolo del Bronzino che si presentava così a buon mercato,non potevo opporre la minima resistenza.Poichè era lì per fare proposte ed io per ascoltarne,finimmo per allargare il campo della nascente amicizia.Avevo dei cefali che ancora saltavano nella sporta e le proposi di aspettare perchè non ci avrei messo a ravvivare il fuoco e a passarli per la brace.Mangiava o non mangiava dall’inizio del mondo,non si capiva bene.Accettò di buon grado e cominciò a seguire il mio traffico.Come ho detto, avevo la fornacetta all’aperto e il fuoco imperiale l’ebbi con gli scarti fluviali che al Rubaconte,senza che li raccogliessi,sembravano una diga di contenimento costruita da castori.Solo per breve ella mi lasciò fare,poi si mise all’opera.Sbudellò con cura chirurgica(abitualmente io lo facevo come pescivendoli al mercato ittico e cioè male)i pesci che riuscivano a volgere un ultimo disperato sguardo al fiume come a Cambio di Miele(Latina) si guarda alle fiabe animate.Metteva allo spiedo con altrettanta cura.Svolgendo queste operazioni all’aperto ed essendo l’angolino avaro di spazio, non le potevo non toccare il mandolino.L’attrazione era fatale.Tanto che la scomodai e le feci un paio di ritocchi all’impiedi.Che non si coronarono del successo della profondità perchè avevamo già stabilito l’incontrario e non si transigeva.Mangiammo con appetito e finalmente in due.Come nella montaliana casa dei doganieri a picco sulla scogliera battuta dallo scirocco.A lei piaceva il pesce e non lo mangiava da una mezza esistenza.Per quell’altro,era contenuta o voleva apparire tale e mi aveva cacciato in campo il fenomeno della mia sregolatezza asinina.Speravo che da quella volta avremmo dovuto intensificare visite o comunque incontri,invece mi sparì come una stella cadente.La scìa luminosa brillò per poco tempo e il Bronzino presumibilmente ritornò alla parete del corridoio vasariano.Ebbi del lavoro duro continuato per un paio di mesi non agli Uffizi tal’e quale,ma nella sala(quella che sarebbe diventata la sala)dell’Ermafrodito dove il gruppo scultoreo di Amore e Psiche era assente come una bella giornata di marzo.La scansione per stanze di tanti capolavori non era ancora avvenuta e se ne avanzava una quasi pudica proposta.La mia attività era trascesa a pura semplice manovalanza.Portavo la calce e pietre di riempimento.Quando mi riusciva,cercavo di rubare ai muratori-architetti piccoli segreti che fervevano nelle loro mani d’oro.Non mi ritiravo a casa il giorno per mangiare.Lo facevo nei paraggi di Ponte Vecchio dove esisteva una pensioncina d’infimo ordine ch’è poi diventata risonante col nome di Bordino.Mangiavo da muratore.Un piatto di maccheroni e un pò di pane e formaggio.A coronamento,una mistura acidula che forse era il risciacquo delle barriche di Gallo Nero.Se avessi saputo dov’era finita o si celasse Marta(volto o risvolto di Laura),la mia felicità si sarebbe messa su buon cammino.Guadagnavo anche cinquanta e sessanta giornaliere.Trattandosi d’un periodo antico che non dico,quando un pranzo di quelli che facevo io costava sì e no quindicilire,se ne può dedurre che riuscissi a mettere da parte.Il risparmio forzato era il mio chiodo fisso.Mi avevano insegnato che bisogna pensare durante le vacche grasse ai giorni tristi e soprattutto alle malattie.Arrivai ad aprire un libretto postale al portatore che mi sarebbe piaciuto cointestare.Feci lasciare la casella o spazio libero per poterlo fare in un secondo momento.Passando e ripassando per Ponte Vecchio,non mi specchiavo soltanto nella superficie dell’Arno(cosa che potevo fare benissimo a Rubaconte),ma mi soffemavo en passant ad osservare la bellezza delle vetrine degli orefici.Già allora con le luci di duemila candele che spaventavano(nello stesso tempo piacevano) al poeta Scotellaro.Il Ponte non era e non è Forcella o San Lorenzo(quartieri napoletani dove ti rubano anche i “carbasisi” di Andrea Camilleri),però qualche mano svelta c’era.Io portavo soltanto spiccioli addosso.Quei pochi maledetti insignificanti finivano nelle tasche di finti osservatori.Un giorno feci storie con un tizio che negava l’evidenza e misi fuori il mio veleno represso scazzottandolo e pestandolo e buttandolo oltre la spalletta.Non credo che se lo mangiassero i pesci.Poichè s’era creato un pò di tafferuglio,cercai con ogni furbizia di diradarmi mutando addirittura pelo.Cioè rivoltandomi la giacca ch’era a double face.Non m’informai se la legge venisse a sapere e si mettesse sulle mie tracce,ma cercai di snobbare dalla bellezza di Ponte Vecchio.A Oltrarno da Angiolino la mazzetta era leggermente più elevata,ma mangiavo da dio.Specie da quando,in luogo dei ticket all’epoca inesistenti,mi davano a forfait per il mangiare.La Sala dell’Ermafrodito era agli ultimi ritocchi,ma già c’era da sostituire la vecchia pavimentazione in frantumi alla Sala della Niobe o Stanzone dove le statue(copie)medicee erano riuscite col loro peso perfino ad avallare certi tratti.Il gress poco accreditato e poco conosciuto aveva virtualmente ceduto alla pietra serena del Fossato del Mulinaccio,dove avevo già lavorato e conoscevo la porosità dell’elemento che mi consentiva di essere affrontato come tufo pugliese.Le cinquanta sessanta giornaliere erano destinate a lievitare e arrivarono alla considerevole somma(inusuale anche per un architetto)di centocinquanta.Saltai addirittura al Trebbio(ch’era ed è rimasto nei pressi di Santa Maria Novella)dove non trovai solo da mangiare.Dormire al Centro mi evitava una vera e propria rivoluzione mattutina.Che si concludeva sempre con una corsa ad ostacoli e con qualche ritardo.Tanto il Rubaconte(non lui ma la sua filiazione)mi apparteneva e me lo custodivo(mentalmente lo avevo in custodia)perchè era un pò la mia casetta in Canada coi ciclamini e i vasi di lillà.Invece,gli sfasciati del Lungarno ci avevano messo gli occhiacci sopra e non ci misero molto a metterci anche le mani.Ne fecero una stearica.Non si salvò neppure la sedia unica e indivisibile che scherzosamente chiamavo il mio sommier.Nella disgrazia,vedrete che ci fu un ramo fiorito di fortuna perchè riuscii a ritrovare il Bronzino che m’era scappato.Andiamo con ordine.Intanto,tra lavoro e sguardi agli Uffizi le mie giornate non avevano un valore minimo commerciale.Erano diventate come quelle degli Agnelli e dei Berlusconi perchè ci guadagnavo in tenuta complessiva:da quella fisica alla mentale.Senza avere una cultura,me la pipavo alla Maigret con la bellezza dei capolavori scultorei e pittorici che transitavano(praetereuntes acquae).Spesso da una Sala all’altra o per quelli che avevo definito corsie di ospedale e ch’erano i più grandi corridoi del mondo architettonico.Neppure Renzo Piano e Gae Aulenti ne disegnano così.Al Trebbio veniva(sempre alla stessa ora e sempre con la stessa visiera)una signora che gli scassati(c’erano)chiamavano “Aux camelias” e che io,invece,osservavo con il mio spirito introspettivo e refrattivo.Nel senso che raccoglievo e stampavo dentro.Ella non aveva il “nasino” e neppure la fronte spaziosa di Laura,ma l’occhio certamente disappannato tanto che,da questo lato,a nessuno sarebbe venuto in mente di darle della triglia.Provai a circuirla(ma il mio pensiero era ben lontano.Forse solo una frazione di frazione si sdoppiava)e le istanze non furono negative.Nel senso che mi corrispose e mi propose subito balzante un risciacquo.Io stavo in una tundra col sesso ed ogni erba grassa illuminava il volto del cammello.Ci stetti e me la tenni per alcune notti.Come se avessi sposato una contessa antica e antiquata del Casanova che voleva solo scoprire curiosità o voleva che ancora la permeassero i ricordi.Mi si ammalò anche per le intemperanze.Al San Carlo andò per un’ispezione globale e le riscontrarono la tisicite operistica delle varie Mimì e della dama delle Camelie che ho già nominato.Poichè quello che aveva fatto col sottoscritto era fuori dal suo protocollo ed aveva parenti illustri che non le facevano mancare l’assistenza,io evitai anche di andarla a trovare.Cosa andavo a dire o a significare?Ch’ero il suo tombeur?Mi promisi che,semmai fosse morta,le avrei accarezzato il drappo e che avrei seguito il carro.Sembra quasi una sciocchezza o uno scherzo che mi voglio prendere o anche una crudeltà,ma l’anziana signora non ce la fece ed io feci esattamente le cose che mi stanno uscendo per le quali non potrei essere tacciato per non averle fatte a puntino.Fu tornando dal “Colle delle allodole”, conosciuto per il cimitero di Soffiano, che decisi di passare per il Rubaconte e di vedere se tutto fosse in ordine.Come se mi parlasse il destino.Stentai fin’anche a riconoscere il sito dove si trovava la mia “ciotola” perchè di essa andata in fiamme non era rimasta veramente niente.Fortuna delle fortune fu il nero “negligè”.Che altro non era che una povera derelitta coi vestiti inzuppati e scippati che,tutta raccolta su sè stessa, piangeva.Non potevo pensare neppure lontanamente alla presenza nascosta di Marta in quell’involucro perchè tanto l’avevo persa.Invece,la schifezza delle schifezze delle tele era proprio lei e bisognerà seguire l’andirivieni per comprendere come si fosse così degradata o per quale nequizia l’avessero ridotta a quella maniera.Solo quando le presi le mani e gliele strinsi come meglio potevo tra le mie,Marta si sciolse e diventò via via da piccola insignificante cascatella, il Basento al “Pettine di Calciano”.Ma i singhiozzi ugualmente non riuscivano a rendere palmare il suo Pentamerone tanto che dovetti prima baciarmela sulle labbra e sul seno per sperare di normalizzarle il respiro.Medicina sacrosanta perchè il pneumatico che stava per scoppiare si afflosciò,i battiti tornarono a settanta ottanta,la lingua schiacciata dalla trappola si liberò.Mi disse che i clochards non le avevano perdonato che s’era messa o che si stava mettendo col sottoscritto e che dopo un tentativo di stupro collettivo rimasto senza successo(il più eroico della band aveva un’asta che cadeva su stessa col moccio terminale),l’avevano presa come una cosa da niente e buttata oltre la spalletta.Essi speravano che una così non sapesse nuotare e che dovesse affogare dopo brevi brancicamenti,invece Marta era stata a suo tempo un delfino nelle acque dell’Ofanto(il fiume interregionale che va a finire a Santa Margherita di Savoia)e sapeva destreggiarsi e zompare in acqua come un cefalo,pescione noto per la sua furbizia e per il poco conto che tiene delle reti.Dalla Carraia(il famoso ponte Gobbo),Marta volò fino al terzo pilone dove l’acqua stagna più che altrove e che i benpensanti chiamavano “Fossa delle Filippine”.Era un luogo che veniva scelto per meglio potersi ammazzare e godeva di assai più fama al noir del ponte di Picerno sulla Basentana anch’esso punteggiato di vittime autolese.A rigore,Marta non avrebbe dovuto uscire fuori da quell’imbuto.Invece,cadde s’inabissò toccò lo strato fangoso e springò con le sue gambe e con le mani verso la luce.Ce ne volle.Un pò perchè il sito era profondo un pò perchè non c’era alcun colore e non si poteva orientare col frugare nella luce che sciabolava senza esito.Finalmente fu su.La corrente era ferma e solo a cento centocinquanta metri cominciava il canoro dei ruscelli e il fracasso dei ciottoli.Il coraggio della disperazione le venne incontro e ci mise meno di dieci secondi a raggiungere la sua relativa salvezza.Essendo intontita e avendo anche bevuto,non riusciva a vincere il disorientamento.Capitò sul suo percorso una lontra di cui i fiorentini avevano dimenticato l’emblema.Seguendo le sue tracce,finì addirittura al Varlungo dove se ne uscì “acrobata dell’acqua da uno scheletro di canne” e trovò temporanea dimora in una casa a più livelli che avevano scorciato a cui dovevano ridare lucentezza di facciata.Lì s’era quasi morta di fame perchè non c’era traffico commerciale.Perfino le troie pompavano a una certa distanza e non erano persone a cui chiedere per vivere.La presenza di giardini semiabbandonati con ogni specie fruttifera in affranta senilità le avevano consentito di vivacchiare.Aveva vissuto da cerva riuscendo a non svaccarsi e a non divaricare i seni alla presenza di alcuno.Poi,seguendo il fiume come prima aveva fatto(questa volta lungo la sponda)con la lontra,era riuscita a raggiungere il Ponte alle Grazie o Rubaconte dove sperava di potermi trovare.C’era sì arrivata,ma le fatiche non erano state compensate perchè aveva trovato solo la cenere di Cartagine col sospetto che nel rogo avessi potuto finire e consumarmi.La ricerca affannosa sui miei resti anatomici e di abbigliamento(non aveva trovato neppure un bottone),l’avevano fatta ben sperare e s’era messa lì a consumarsi in mia attesa.Non potevo non coronare la fine del racconto con un’effusione di baci. Virtualmente la caricai perchè era deserto e nessuno avrebbe potuto vederci.Mentre mi giurava che il suo godimento era senza confini e che non lo viveva da tempi immemorabili(l’affondo che mi aveva vietato era da lei stessa benedetto),io pensavo come vendicare Marta e anche dove saremmo andati a stare ora che non avevo più le tegole e il sommier.Poichè una casa al centro e perfino in periferia costava,temporaneamente ci sistemammo in uno sfitto che stava a piazzale Michelangelo come Villa di Mandri al Borgo.Ch’era tutt’altro che periferico,ma che s’era tinto di noir.A causa di un omicidio passionale la cui vittima era l’alter ego della mia contessa decaduta pomiciata e morta pace all’anima sua.Marta seppe del noir e aveva qualche riserva,ma con dolcezza le raccontai che i poveri sono essi stessi una favola e che non devono aver paura se non delle loro privazioni e dei malanni che inevitabilmente accompagnano.Ci sistemammo alla meglio.Qualche soldo potevo scucire e le commesse non mancavano.Trovai qualche lavoro anche per la Mia.Pulizia a palazzo Vecchio e lavate favolose nei corridoi.Marta aveva un debole per la scopa e per lo struscino.Non trovò affatto faticoso l’impegno che non ebbe bisogno di un corso accelerato.Coi giorni ciascuno di noi ruppe le sue riserve e ci raccontammo con largo scambio.Lei sembrava al cento per cento sincera.Mi parlò di un vecchio fidanzamento “rato e consumato” come un matrimonio,del compagno che l’aveva mollata per un altro partito,della sua disperazione e della decisione di prendere un treno.Andasse dove andasse.A Firenze non aveva trovato lavoro nè anima che l’ascoltasse o,com’era più probabile,s’era lasciata prendere dall’inedia ed era finita nell’infimo.Non le dissi della mia passione per il “Ritratto di Laura”,ma esaltai il suo “nasino” e le sue labbra ch’era come parlargliene.Il nostro menage prese subito una piega positiva.Essendo lei di paese e provenendo da una famiglia povera dove tutto s’impara per sopravvivere,si rivelò un’ottima donna di casa.A letto mi dava gioie.Era dinamica come la lontra che aveva conosciuto e di cui s’era fidata.Se non ero io a muovermi quando infilavo le lenzuola,era lei a zomparmi addosso.Questo tipo di ginnastica era bella e mi piaceva in senso assoluto.Ogni volta non avevo bisogno di risalire con la mente a Laura.Andavo assai più giù.Verticalmente in basso.Non conoscevo o conoscevo male le esaltazioni dell’amore e i famosi prolegomeni.Mi bastava il pensiero delle ciucce che aprono spudoratamente le cerniere.La quasi certezza di un lavoro a lungo termine,il piacere sentimentale che andava a cento all’ora,l’assenza di ombre sospette che in un primo momento limitavano le nostre sicurezze in casa ci facevano camminare in tutta tranquillità.Come per un dolce sentiero di campagna bordato di fiori e di spini con ogni tanto una bella rosellina.Se ci fossimo del tutto dimenticato dell’affronto subito da parte dei clochards,avremmo potuto continuare a viaggiare comodamente col nostro diretto.Invece,una volta lei e una il sottoscritto ci proponevamo di andare al Rubaconte per distribuire la pariglia.Fino a quando,non volendola coinvolgere,non presi la decisione di eseguire la “strafe expedition”.Essendo prevenuto e preparato,riuscii a buttare oltre la spalletta una terna di miserabili che probabilmente nulla avevano a che fare con i veri colpevoli.Questi non avevano le capacità nautiche della Mia.Erano degli spiantati che non si lavavano e non lo facevano principalmente per non affogare nelle due dita della bacinella.Affogarono tristemente tutt’e tre e se ne disse per tutta la città.I giornali locali parlarono di killeraggio da cui bisognava guardarsi.Temendo di fare la fine del mostro Bisaccia( meridionale di Vaglio Basilicata che si è coperto di una ventina di delitti),dissi alla Mia di non parlarne anche con noi stessi,che se per caso fosse trapelato qualche mezzo sospetto avremmo dovuto fare subito le valige.Era difficile che mi potessero indiziare.Firenze non era e non sarà mai Londra ,ma i killer dovunque non hanno un volto e non lasciano indizi del loro passaggio.Andò bene per una ventina di giorni.Durante i quali ugualmente vivevo sulle spine per i morsi di coscienza.Poi,cominciò a parlarsi della mia ciotola bruciata, della congiura dei barboni,di un rogo ritorsivo.Cose vaghe.Pensieri in volo difficili da acciuffare.Come il pallone di Edoardo Nesi in “Miracolo inevitabile”.Se la lontra non si fosse recata lei in persona a un commissariato a sporgere querela di parte,non credo che altri lo avesse potuto fare.Invece rastremando rastremando in tutto il Lungarno,la polizia cominciò ad avere i primi sospetti e si mise sulle mie giuste tracce.Al Rubaconte avevo un fuoco abusivo.Quel fuoco era diventato cenere.Quella cenere era misteriosa e non si esauriva nel pugnetto residuo.La mia fortuna era comunque smaccata.Primo perchè non portavo un cartello col mio nome sotto la “coda”(non ero e non sono un cane)e poi perchè nel Lungarno c’erano altre ciotole somigliantissime tra loro che,oltre a confordersi,spaesavano i personaggi.Marta non stava calma.Si sentiva(essendo originaria di Troia)come Elena sulle porte Scee.Arrivò a dirmi che forse era meglio che raccogliessimo il nostro piccolo e ce ne andassimo.Disapprovai perchè avremmo finito per suscitare sospetti.Gente che parte così con l’insicurezza di trovare un lavoro e un guadagno o è pazza o ha da farsi perdonare qualcosa.Coi giorni ci addolcimmo.Tra di noi non volavano i piatti,ma c’era tensione.Anche perchè i killer ritorsivi smisero di occupare le prime pagine dei giornali e vennero confinati all’ultima dove si confondevano con i nomi dei necrologi.La nostra ginnastica focosa non smise ma fece i primi passi verso la contemplazione e l’adorazione.Se Marta era Laura o il suo simulacro non potevo trattarla come una cagna,ma col rispetto umano e con la poesia che usano i grandi spiriti.Non avendo questo corredo,pensai di farmene uno comprando dei libri adatti alla bisogna.Lei leggeva i settimanali e si fermava al glam dove incontrava le più belle descrizioni erotiche che si possano immaginare.Io,a causa di un incauto acquisto, leggevo da “L’abbazia di Northanger” di Jane Austen di quella Catherine incapace di distinguere realtà e fantasia che corre dietro a saghe gotiche con fughe al chiaro di luna e sinistri rintocchi di mezzanotte.Era pur capitato che la nostra dimora cominciasse ad essere afflitta da rumori strani che,a causa del suo sonno pesante,Marta non avvertiva e rizzavano me che avevo tormenti di coscienza.Una sera mi fermai alla Baracchina senza dare avviso.Questa andava famosa per merende fuoriporta e per un vino che neppure al Trebbio avevo mai gustato.Eravamo un piccolo manipolo tutti lavoratori degli Uffizi pr festeggiare un compleanno.Ero andato per trascorrere qualche ora e fare ritorno all’ovile ben prima di mezzanotte,ma bevvi senza misura e senza ritegno tanto che mi allogarono in un sottoscala per trascorrere la notte.Non potevo immaginare quanto mi sarebbe costata l’infrazione.Affrontai l’alba del nuovo giorno,oltre che con gli scrupoli,con la testa dolorante e con lo stomaco a pezzi.Non c’erano telefoni per avvisare Marta.Anche se ce ne fossero stati in quell’epoca di gadget fissi murali non eravamo in condizioni di averne uno.Quando arrivai al piazzale e puntai su casa,ebbi una strana stretta al cuore.Uguale a quando ci vengono precognizioni.Trovai l’appartamentino deserto senza un biglietto in cui Marta mi chiarisse della fuga.Pensai allo strafalcione che avevo commesso e non sapevo darmi pace.Lasciare Marta sola in una casa “sospetta” era stata un’incoscienza che ora mi pesava sotto forma di rimorso.Ma la disattenzione era stata commessa e dovevo,se mi riusciva,recuperare il salvabile.Mi misi a girare come un forsennato per la città e per il Lungarno.Mi fermai a molti Ponti famosi .Su ognuno avevo cura di guardare con volto tragico in basso.Vedevo pescioni che mi sembravano migrazioni dal Basento perchè schiaffeggiavano la superficie come i miei vecchi campioni.Al Varlungo trovai un angolino interessante sul quale avrei potuto riporre,se fossi stato in vena,qualche pensiero di aggiusto.Al San Fernando mi fece notte e cercai un nido di alzavole o di altri uccelli fluviali per riporre le ossa stanche.Era tutto pulito come un campo di foot-ball.Arrivai a pensare che avrebbero dovuto giocare qualche partita notturna col sussidio di grandi fari.Invece,m’era sfuggita una cascina che ho poi ritrovata ricopiata,tempo dopo, a Peretola a due passi dall’aeroporto.Poichè avevo interiorizzato senza conoscerli certi programmi di scuola sul fondamento e sul coronamento religioso a tutte le altre materie,mi provai a pregare in una maniera che potessi commuovere Dio.L’assillo era che da par suo mi trasformasse la baracca in un Sesamo.Miracolo puntuale che si verificò dopo ch’ebbi assestato alla porta d’entrata uno spintone gladiatorio.Trovai un interno pulito e ricettivo perchè il sito era abitato.Per mia fortuna,i proprietari lo avevano snobbato da poco e per poco quasi che fossero stati a conoscenza che mi avrebbe fatto comodo in una notte che,solo per questo,non si profilò come quelle di tregende e di altri spasmi fisici dolorosi.C’erano addirittura due brande aggiustate che mi facevano occhiolino,ma scelsi quella baldacchinata dove s’era rifugiata la coppia.Non cercai da bere e da mangiare perchè m’ero nutrito di sufficiente veleno per tutta la giornata.Adesso arrivava la calma insperata e la bellezza d’un’atmosfera uguale a quella delle grandi nevicate.Coi silenzi sovrumani che piacevano a Leopardi e con la voglia di dormire perchè ero stanco e provato.Speravo in un solo cambio di positura e volare.Invece, cominciarono gli odori delle lenzuola.Mi sembravano che provenissero da qualcosa di pasticciato e bagnato.Sicuramente c’era stato un lavorio intenso da parte della coppia.Non potevo e non me la sentivo di piastricciarmi a mia volta per poi sentirmi addosso uno strato che non mi apparteneva.Traslocai.A scapito delle ossa che trovarono un piano assai più duro e ristretto del primo,ma col sentore di pulito.Il sonno che avrebbe dovuto aggredirmi come un assassino stentava.Tanto che mi misi a pensare alla mia recente vicenda,a Marta che chissà se avrei mai ritrovato,alle mille Laura sparse per il mondo che Bronzino aveva assemblate in un sol ritratto.Mi proponevo di scovarne altre e di diventare eventualmente reporter per poter ritrarre le più sedicenti.Il riposo venne inframezzandosi.Tra un pensiero e l’altro.Si mise come un cuneo e non mi lasciò scampo fino a mezzanotte in punto.Quando da un orologio,l’ultimo reperto crepuscolare del poeta Guido Gozzano,partirono i dodici colpi.A quel punto,sobbalzai perchè la vescica mi stava per scoppiare.Il pendolo s’era ingrossato come fa sempre quando deve scaricare.Aprii la porta della ricca magione e mi trovai su una specie di sagrato illuminato dalla luna che guardava a Firenze meglio del piazzale Michelangelo.Mentre la cascata delle Marmore partiva,staccato dall’esercizio mi contemplavo il meglio.Per la prima volta mi capitava di vedere l’Arno come testato nella canzone “Firenze dorme.”E sarei diventato anch’io poeta se non avessi avuto il chiodo terreno di Marta che,in qualche maniera,mi straziava.Rientrai anche per certi effetti atmosferici che minacciavano la brinata.Dalla quale non potevo non riguardarmi se non avessi voluto fare la fine di un cavolo verza ammosciato.Per strano che fosse,ripresi sonno al semplice contatto delle lenzuola e avrei fatto mezzogiorno se sul terreno antistante la cascina non fossero venuti i galletti a salutarmi.Mi ricordai che non mangiavo da ventiquattr’ore e risposi al saluto con una soppressione scellerata.Addirittura due esemplari quando avrei potuto accontentarmi di uno solo.Fare il fuoco era il mio forte.Lì il materiale incendiario non mancava e attesi le braci.Sulle quali le due carcasse saltavano come locuste perchè o erano ancora vive o il sangue non s’era del tutto sciolto.Mangiai all’impiedi.Arrivando a meravigliarmi della mia avidità e dell’insaziabilità del mio apparato digerente.Sempre scherzando tra me, dissi che se all’inziaziabilità dell’apparato avesse fatto riscontro quella del violino molte madonne fiorentine avrebbero avuto di che essere fiere.Invece,la bestia era morta da un paio di giorni.L’arganello sognato per l’alzo non l’avevo e il viagra miracoloso non ancora aveva fatto il suo ingresso in commercio.Feci appena in tempo a muovermi perchè giungevano voci.Da una siepe in cui m’ero nascosto,assistetti all’arrivo di un manipolo ottomano che,avendo notato le infrazioni da me lasciate,girava con le sciabole lunate.Me ne andai con calma.Vedevo e non potevo essere sbirciato.Il mio osservatorio era bello e a largo spettro come quello di Castelgrande in Basilicata che come pochi guarda al grande planetario e solo da pochissimi(dagli addetti)è conosciuto.Dovevo recarmi agli Uffizi dove ancora risultavo ingaggiato.Dopo la sistemazione allo scalone del Buontalenti,si diceva che avremmo posto mano a una chicca di per sè intoccabile(fatta di ori e altre pietre preziose)ch’era il tesoro di Cristina di Lorena.Alla cui soffittatura si deliziò e profuse Ludovico Buti.Io dovevo impastare la calce e carreggiarla,ma mi sentivo importante come il tiramantaci dell’organo.A piedi neppure Mennea ce l’avrebbe potuta fare per l’apertura,ma saltando da un tram a un bus tanto da averne contati dieci,arrivai con meno di mezz’ora di ritardo.Mi fecero ugualmente timbrare perchè la mia presenza era preziosa.Come quella dell’odontecnico per l’odontoiatra.Non potevo non lavorare col pensiero a Marta e quella innervatura mi avrebbe accompagnato fino a sera.Quando finalmente avrei smesso.All’ora di pranzo(pane mortadella e un fiasco),sbirciai su un giornale letto e dimenticato per vedere semmai si accennasse alla Mia.Non era morta.Altrimenti le avrebbero dedicato una spalla.Questo fatto mi rincuorò e mi diceva che non avrei dovuto cessare nel mio cammino di ricerca.Benchè Marta non ne fosse capace,alla preoccupazione per il suo ritrovamento si andò insinuando la paura ch’ella avesse potuto spifferare dei miei reati efferati a qualche corpo di polizia,che avrei potuto finire i miei giorni in gattabuia.Un motivo in più per stanarla.Anche usando il guadino e la rete.O il forcipe.Benchè mi sembrasse difficile che potesse venir fuori da un utero infiammato.Cercai di trasformare la mia vita in American Life di Sam Mendes.Un piccolo film che va in giro.E che nel suo girare,viaggia sempre verso casa,seguendo una giovane coppia in attesa di un figlio,in cerca del luogo giusto in cui vivere.Sono una famiglia.Sono individui senza certezze,ma forti e felici.Nel fare questo o nel pensare questo non potevo non pormi come meta da raggiungere Marta.Era sicuro come la certezza di avere pane che non si era mossa da Firenze.Primo perchè non aveva soldi e poi perchè non era pratica di viaggi.Aveva preso il treno una sola volta in vita sua.Con una decisione anche scellerata.Ero anche sicuro che senza il sottoscritto avesse smesso di sentirsi felice appagata trombata e non aveva con chi condividere gli affanni e ricevere empatia.Non mi restava che setacciare meglio i Ponti e guardare nelle zone periferiche.Per esempio,nell’Oltrarno,a via dei Massoni,alle Ballodole,al torrente Terzolle se non al confine con Sesto Fiorentino.Approfittai del sabato libero e fittai il bimotore illusorio.Dove non arrivavo con la punta delle scarpe,sorvolavo con la vista a trecentosessantagradi.Stranamente sembrava che fossero finite le donne che vivevano d’accatto.Qualche vecchiaia decrepita viveva tra i cartoni,ma tutto aveva e meno che il “nasofilato” di Marta copia a sua volta di Laura.Provai a chiedere fornendo il menabo di tutti i possibili segni identificativi.Molti non mi ascoltavano per il carattere fiorentino che non s’impiccia,altri accennavano come si fa con uno stuolo di colombe di cui si è avvertito il fruscio.In Oltrarno la messe si arricchiva.Trovavo pagliare a cui mancava solo il marchio di riservato dominio perchè erano uguali a quelle che mi uscivano dalle mani.Gli spiantati non si contavano,ma erano tutti uomini.Come se le donne avessero preso il topicida o la cicuta del filosofo che scavava profondo in sè.Una sulla cinquantina mi vaporò a Terzolle dal greto.Il fondoschiena era lo stesso,l’altezza approssimativamente uguale,ma la faccia era di una sfinge.Mi chiesi se non venisse da Giza.Poichè si dava,mi trattenni con lei per vedere semmai sortisse un miracolo o fosse Marta involuta.La trovai sporca e priva completamente d’intimo tanto che dovetti desistere.Per non sentirla,le sganciai qualcosa e le raccomandai di non seccarmi oltre.La domenica non fu più fruttuosa del sabato.Dormivo poco e male in casa perchè gli spiriti erano riapparsi e seguivano il loro copione di sangue.Arrivavano a spaventarmi aggrappandosi alle lenzuola e facendo finta che fossero gatti.Decisi di mollare e di cercare altrove.In via Palazzuolo da Giorgio trovai un sottotetto ch’era il corrispondente di un fornellone al butano.La mia fortuna era la finestra che dava sul tetto.Me ne uscivo e mi portavo la coperta solidale e mi appollaiavo accanto al vecchio comignolo che mi richiamava a quelli artistici della cittadina lucana di Miglionico.Dormivo sotto la volta celeste.Poichè a una cert’ora l’arietta diventava frizzante,arrivavo a mettere la testa nel buco come la merla che si vantò per poca “bonaccia”.Una mattina mi guardai con cura alla “grasta”(scheggia di specchio)e vidi riflessa la faccia di un Bongo.

Autore: Giovanni Angiolo RUBINO

Lettera per Pupi Avati. Lettera 70.

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