Lettera per Giuseppe Tornatore

Lettera aperta di bruna spagnuolo a Giuseppe Tornatore
“Il volo del guerriero”

domenica 13 novembre 2016,

Non oso indirizzarle una lettera come si può fare con una persona qualsiasi, perché lei è un mito ed è a tale mito che le mie parole sono rivolte. Le scrivo a nome di un amico che, a causa di un ictus, non ha più la libertà di compiere i gesti normali della gente comune (e... non ha più le ali con cui realizzare i suoi sogni).Questa persona si chiama Aurelio Brioschi. Mi ha mostrato due tomi di pensieri, riflessioni e componimenti poetici vergati a mano, quando sono andata a trovarlo. Me ne ha indicato una e non ho capito, allora, che cosa mi volesse dire. L'ho capito dopo mesi, quando, dopo intensi sforzi, tenacia e terapia ha cominciato a esprimersi meglio e ha potuto telefonarmi: mi ha detto che il suo sogno più bello sarebbe mostrarle il componimento lungo solo quanto una poesia, che mi aveva indicato in occasione della mia visita. perché pensa che lei potrebbe esserne ispirato. Nulla di nuovo sotto il sole, ho pensato: chi non sogna che il grande Tornatore possa trarre un film da una sua opera o da una sua idea? Gli ho detto che ci vuol altro (qualcosa come Guerra e Pace) per dare le carte in regola a un simile sogno, ma poi mia figlia mi ha indotto a riflettere sulla mia risposta e... sono qui, in questa pagina, per rimediare al mio errore. Tutti hanno diritto ai sogni e chi è stato colpito dal destino, ovvero privato della sua dignità di membro produttivo della società e della sua capacità di volare in un campo qualunque della vita, ne ha, forse, di più... Trarre un film da una poesia di Brioschi resterà un sogno? Non importa. Io mi occupo, intanto, di realizzare il suo sogno di farle giungere la sua poesia. Eccola:

IL CUSTODE DEL TEMPO
Era incredibile.
Ogni mattina, al sorgere del sole,
era li, immobile, di fronte all’orologio
del campanile.
Che piovesse o che fosse bello,
con la neve e con il vento,
non mancava all’ ”appuntamento”
un solo giorno all’anno.
Io lo chiamavo ironicamente
“il custode del tempo”.
Dalla mia finestra lo osservavo:
erano anni e anni che seguivo
quel rituale, mai monotono nonostante
la scena non cambiasse mai.
Arrivava la mattina, qualche
minuto prima del sorgere del sole,
si fermava sotto il campanile, si scopriva il capo
e fissava le lancette, silenzioso e fermo,
per oltre un’ora, poi si rimetteva il cappello
e se ne andava com’era arrivato.
Era un uomo dal fisico minuto,
dal viso scarno e dagli abiti consunti
ma aveva un’aria stranamente
ordinata e un passo lieve e costante
come il battito delle lancette dell’orologio.
Abitava in fondo al paese, in una piccola stanza in affitto.
La sera, il lume della sua finestra si spegneva presto,
forse per stanchezza o forse per miseria.
Era un bravo calzolaio e si diceva che fosse stato
in guerra, ma io non ne ero troppo convinto.
Volevo solo scoprire il perché
del suo strano “rituale” quotidiano.
Lo aspettai, una mattina, e lui giunse come sempre, puntuale.
Si appostò dinanzi all’orologio
e si fermò a fissare le lancette.
Titubante, lo affiancai, con fare casuale,
guardando l’orologio a mia volta.
Non mi notò subito e si accorse di me quando gli parlai.
Con mente distaccata e sguardo assente, rimase
assorto nei suoi pensieri.
“Gran bell’orologio!”, dissi, imitando la sua
Contemplazione.
Non vi fu risposta, per un lungo istante,
in cui spostai lo sguardo curioso su di lui.
Mi guardò, con aria stanca, allora,
mi posò una mano sulla spalla e parlò:
” Sa, caro amico… tanti anni fa… ero giovane e…
con la testa piena di speranze che la guerra portò via per sempre, come quelle di tutti, quando fui deportato in un campo di concentramento… Fu la mia abilità di calzolaio a salvarmi la vita perché il mio era un mestiere… utile…
Ho rifatto gli stivali a molti soldati e ufficiali. Uno di loro
mi diceva sempre: “ Sappi, uomo, che ogni ora di vita in più
ti è regalata!”
La fine della guerra mi ha trovato in vita e, perciò, da allora, io sono in debito con il tempo…”.

Questa poesia fa parte di una raccolta proveniente dai tomi autografi di Aurelio Brioschi (da me impaginata come libro intitolato "Il volo del guerriero").
Gliene allego anche la prefazione (dalla quale si capisce il senso del titolo):

Prefazione
Si è fatto un gran parlare dell’ermetismo e dei meccanismi che ammantano l’espressione poetica dell’alone di mistero e di segreto che, dall’inconscio profondo e insondabile, manda richiami silenti perché l’io, ovvero la sentinella instancabile in ascolto sempre vigile, ne plasmi i simulacri metaforici densi di immagini capaci di esplodere o implodere/ fiorire o avvizzire (a seconda dei casi). L’inconscio collettivo ha stivato le varie stratificazioni dell’eredità umana (inclusa quella poetica) nelle proprie stratificazioni variegate di permeabilità /impermeabilità/ depista-menti/ assuefazioni/ indifferenze/ coma culturale/ progresso affetto da analfabetismo spirituale. La mente umana si è ingabbiata sempre di più nelle finte culture e negli inganni verbali (tramati perniciosa-mente/ telenovela-mente/ pubblicitaria-mente/ genocid-iosa-mente) e ha dimenticato le diritte vie del sentire immediato e del suo fluire nella parola semplice e diretta come le voci della natura e le precipitazioni atmosferiche. Tutto ciò può condurre l’umanità verso direzioni, a dir poco, tristi e, a volerla dire tutta, disperanti, a meno che non si rifugi in risorse fedeli alle leggi scritte nelle origini del mondo, delle sue forze e delle sue creature.

Aurelio Brioschi è uno di coloro che non sono caduti nella delusion mistificante delle cosmesi varie, ma uno di coloro che avvolgono i passi quotidiani, i canti e il pianto, di ognuna delle manifestazioni con cui la vita scolpisce i progetti umani che il Creatore si aspetta da ogni individuo creato, nella semplicità trasparente. È un costruttore, un progettista, uno dei geometri che hanno fatto la storia dell’edilizia italiana, una delle colonne portanti dei progetti di tutto rispetto stilati nel silenzio nascosto a tutto vantaggio della sostanza e della sicurezza mai sbandierata (perché data per scontata, come tutto ciò che è, per dna, pro verità e mai pro menzogna/ pro vita e mai pro morte). Una certa generazione di geometri è stata quella nella cui mano hanno mangiato molte generazioni di ingegneri e architetti (che del loro talento e della loro esperienza senza limiti hanno “auto-decorato” le proprie firme). Di quella categoria di geometri fa parte Aurelio Brioschi e della sua personalità da costruttore di sostanza senza fronzoli e senza apparenze velleitarie ed effimere sono impregnate le sue poesie.
La parola scritta ha sempre avuto il fascino del nero su bianco attribuito a ciò che non è caduco e che è destinato a durare. Il fluire della parola che nasce come acqua di sorgente dalla penna con cui Brioschi verga le sue poesie, che abbia o no piglio dotto o letterario, scorre nel letto che il fiume della poesia ha ingrossato sin da quando i popolani hanno vergato le ansie, le esaltazioni e le pene del loro cuore e della loro mente sulle pelli o sulle pergamene antiche trasportate a spalla, nei loro sacchi e nelle loro bisacce di rapsodi erranti e di pastori.
La semplicità delle poesie di A. B. è, in effetti, soltanto apparente, perché la linearità della sua poesia si presta a una molteplicità di letture e di tavole allegoriche eventuali (vedi, per esempio la poesia Mare d’inverno, nella quale i versi “Quando il cielo si fa scuro e /il vento soffia sulla costa, /il grande lago salato/ si increspa e si fa grosso,/ si agita e ruggisce contro la scogliera” può essere letto tranquillamente come “Quando la vita ti sferza con tragedie e dolori, i tuoi passi si fanno confusi e i tuoi giorni agitati e ti ribelli contro la scogliera dell’imponderabile più grande di te” “Quando il vento gelido si insinua/ nel tuo viso, ti increspa i capelli/ e ti costringe a nasconderti/ dietro il bavero del tuo cappotto./ Quando la spiaggia è vuota da tempo/ e il sapore della salsedine/ ti riempie il respiro,/il molo è un continuo agitarsi/ di barche ancorate” si può tradurre con: “Quando i sentimenti cocenti ti arruffano, cerchi un rifugio temporaneo caldo quanto basti ad accettare l’amarezza dei tuoi sospiri, a osservare con sobrietà la gravità degli eventi e a valutare la resistenza degli eventuali ancoraggi”. “Quando i pensieri incominceranno/ ad insinuarsi nella mente/ imparerai ad apprezzare l’immensa/ forza del mare, a rispettarla/ e a esserle amico” Si può leggere così: “Quando una certa saggezza si farà strada nelle impulsive vie del vivere giovanile, l’età matura farà capolino all’orizzonte. Allora e soltanto allora, comincerai a capire che è meglio non opporre resistenza alla marealità degli eventi troppo grandi e, ponendoti di fronte all’arcano con rispettoso abbandono, ne scoprirai la benevolenza amica e ne trarrai i codici delle crescite insite nella nascita degli esseri umani”.
Anche le poesie che B. dedica al ricordo e alla celebrazione del tempo passato sono riconducibili a questo filone, benché foriere di più alti aneliti e “sospiri” (vedi, per esempio, la poesia Aquiloni: “La folata di vento/ rende prima incerto/ e poi sempre più sicuro/ il decollo./ Come libellule si alzano. Sono in alto,/ più in alto, di più e poi scompaiono…/ Chiudo gli occhi e sospiro: vorrei vedere il mondo/ dal volo dell’aquilone e lasciare nell’aria il peso/ del corpo e dei pensieri…”
Ci sono poesie, in cui B. racconta e si racconta e apre la porta del suo io interiore (la socchiude appena, con riservatezza e con pudore, e la richiude su ciò che è parte solo del mondo dell’anima e della vita personale (intimamente sacra ai valori-amori da difendere da occhi estranei e da predatori di purezza e candore) e ci sono poesie che definirei pedagogiche, in cui si avverte la tentazione moralistica zampillare dai solchi sofferti della vita (vedi: “Le montagne insormontabili/ stanno a due passi da te./ Nascono dall’indifferenza/ e dall’intolleranza,/ o semplicemente dal fatto che non ci si parla,/ si rinuncia a capire…” “Il fascino delle cose,/ nasce nel tuo cuore./ I colori, le forme, /i profumi, le essenze,/ fanno parte di un disegno/ creato per gli uomini/ e le creature del mondo./ I sentimenti per la vita,/ le emozioni esistono/ per dare un significato alla vita”).
Il linguaggio lineare e schietto e l’incedere bonario e pacato di B. non paiono ambire alle sottigliezze dei percorsi intimistici e dei processi emotivi dalle ramificazioni letterarie complesse.
Il lettore che non difetti di sensibilità, oltre che di intuito e di acume, però, non farà a meno di cogliere, nei versi apparentemente semplici, il presentimento del dolore annidato nei connubi con la natura, il disincanto del trasecolare delle ore e delle stagioni della vita, il fiorire e lo sfiorire di-illusioni, speranze, delusioni e fatalità che sono il barlume nell’incombere del buio in agguato, la folgorazione della rosa che non è la rosa nell’aurora, dell’intercapedine in cui niente è ciò che sembra e tutto sottende le mappe del cammino umano e del suo patire, del focus sulla musica dolente del lirismo incompreso dall’umana ottusità chiusa alla leggiadria dei veri valori e dell’innocenza, del senso dolor-oso-ante della vita aggredita dal materialismo imperante, della tragedia dell’amicizia tradita, del sole sempre acceso all’orizzonte e dello sfondo finale, il canto librato sul giorno e sulla notte, sulla vita e sulla morte e sulle elegie del cerchio di luce che sempre comprende la speranza.
Il presentimento del dolore, fedelmente assente come lamento cosciente, s’intrufola ovunque (forse proprio nei canti pieni di sole) come un alito lieve o… come un presentimento, tra i versi in cui sono gli amici a “cantare al sole”. Le consapevolezze mature dell’autunno della vita suonano come nenie placanti e come balsamo sulle ferite.
Le illusioni, le speranze e le delusioni fatali della vita occhieggiano come dissonanze incombenti e l’armonia duole nel lirismo dell’incomprensione chiusa alla leggiadria dell’innocenza (vedi Clown per tutta la vita).
Aggredita dal materialismo imperante il senso della vita cerca il suo perché nelle cime e nell’incanto della natura (dove i deserti fioriscono e le meraviglie non corrono pericoli).
Le “ali spezzate” portano la firma di un sentore scavante non bene identificato (presentimento prematuro incistato nei “confini dell’esistenza” ignara).
L’amicizia sacra va a nozze con il fuoco propulsore dei versi di A. B. e, spesso, stride con la tragedia del tradimento, che apre e chiude repentinamente “sipari” dolorosi e sfumati (dove la “marionetta” è se stessa, infine, per una sola e ultima volta).
Non manca la rassegnazione (stemperata in accenni dal piglio indottrinante), in cui “la beffa”, “l’ironia della sorte” e “i giochi del destino” sono forieri di “delusioni”, “stati d’animo contrastanti” e “compromessi” senza “respiro” che uccidono “l’orgoglio” e “la voglia di combattere” e costruiscono un mondo in cui il vivere è subordinato al sopravvivere.
Tutto ciò confluisce nella faiblesse della parola “inutile” e del dolore di non aver potuto “cambiare il mondo falso e ipocrita”, pur senza mai chiudere il passo all’orizzonte luminoso e libero di un canto finale fatto di “riso” e di “pianto”, di “gioia” e di “speranza”.
Il sole, la luce, il cielo, le forze della natura sono il panorama nel quale si libra sempre il canto fatto di gioia e dolore, speranza e disperazione, giorno e notte, vita e morte.
L’aspirazione al superamento delle pastoie (oltre gli spazi angusti e l’incomprensione, oltre l’ottusità della materia caduca) è dolore per la paura di non riuscire a “catturare il sole” e l’ansia del tempo al di là del limite del peso corporeo umano e delle meridiane dei giorni e delle stagioni e… della vita stessa si proietta nell’infinito e nel sempre senza scadenze dell’eternità (vedi Immenso).
La scrittura di A. B. riflette l’eterna condanna del poeta a farsi spugna delle percezioni e dei mali del mondo (come ne I figli del vento e in altre poesie), colleziona i ricordi inevitabili e pungenti e li cura spargendo gli unguenti miracolosi della bellezza su tutte le fibre doloranti del sentire umano.
La condanna sviscerata di ciò che non è sano e solidale (vedi Maschere di gesso), i graffi causati da chi non ha saputo fare altro che tradire e la rassegnazione alla sconfitta e alla mano tesa dall’aiuto sine qua non (vedi. epilogo), l’osservazione disincantata del mondo e il superamento del limite nell’aspirazione alle bellezze del creato e alla “luce” (vedi Occhi di ghiaccio), i ricordi sfogliati come fotografie ingiallite e la tenerezza onnipresente che abita le memorie passate sono la sabbia, il ferro e il cemento del vero e proprio “progetto edilizio” che B. costruisce (come un trono rivestito di dolcezza) perché vi risieda, sovrano, l’amore (sicuro come l’avvicendarsi del giorno e della notte e come le maree). È l’amore, infine, il protagonista di questo libro che contiene i risvolti poliedrici della vita (dell’autore e… di tutti, in fondo), l’amore pulito, lineare, sicuro, senza ambiguità, caldo e privo di ombre come una religione (vedi, per esempio, Oracolo), ma non è disgiunto da veri e propri inni alla vita (vedi L’estate d’inverno) e dal seme lucente e forte della voglia di risorgere comunque e sempre, sia pure dalle proprie ceneri, come la fenice (“E ancora vita ci sarà/ oltre il dolore del cuore,/ oltre la sofferenza dell’anima!/ E ancora vita ci sarà/ giorno per giorno,/ quando il sole di nuovo si alzerà/ e la nebbia si diraderà!/ E ancora vita ci sarà/ per proteggerne una nuova/ e combattere contro i fantasmi/ e le avversità./ Affinché il cuore diventi/ di nuovo un giardino fiorito,/ nuova linfa ci sarà/ per te, per me e per chi verrà/ attraverso il cuore e l’anima”).
Alcuni versi toccanti e brevi, però, scavalcano tutti gli altri per farsi testamento forse involontario dell’autore (“Sarò una scintilla/ del grande mondo infuocato/ di gioia e di vita che, col tempo,/ verrà spento da una pioggia d’amore./ Di me resterà solo l’amore di/ fumo della cenere posata/ davanti alla porta di un’altra vita,/ che alimenterà i nuovi fuochi/ lontani…/ sempre più lontani...”) che, dalle pastoie della sua malattia, rifiuta di arrendersi al destino del suo Pellerossa (non sei più un grande guerriero,/ non riesci più a tirar le tue frecce) e sceglie di emulare il suo guerriero alato, il Gabbiano solitario, per districarsi dai rovi, alzarsi in volo, lampeggiare nel vento, sfidare il mare burrascoso e conquistare la libertà immensa, quella vera che, con la sola forza del pensiero, fa rabbrividire qualsiasi “scogliera” e sconfigge il limite di qualsiasi natura.

La ringrazio dell'attenzione e chiedo venia per aver osato tanto, ma, anche se questa mia non è che una delle moltissime lettere (tutte foriere di sentimenti nobili e notevoli) che le vengono indirizzate, per me ha la valenza di un dovere che dovevo compiere. La saluto e, sia pure con grande soggezione, le auguro ogni bene (tutto ciò che lei ritiene bene per sé e per i suoi amori)

Autore: bruna spagnuolo

Lettera per Giuseppe Tornatore. Lettera 127.

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